Donne afghane: per una rete di solidarietà nel distretto di Sassuolo

/ agosto 25, 2021/ Solidarietà

Foto di Laura Quagliuolo del Cisda (2019)

CDC (coordinamento per la democrazia costituzionale) della provincia di Modena, Arci zona Sassuolo – Arci provinciale, SPI CGIL zona Sassuolo e CGIL zona Sassuolo rivolgono alle cittadine e ai cittadini di Sassuolo un appello per una rete di solidarietà nel distretto. Ne riportiamo di seguito il testo, insieme a un’interessante intervista a Gabriella Gagliardo, presidente di CISDA.

Aiutiamo ora le donne afghane, le più minacciate in assoluto dal regime talebano, e le loro famiglie. Accoglienza, contributi economici, corridori umanitari subito, progetti di inclusione lavorativa, sociale e culturale oggi e nel futuro.


Costruiamo in ogni paese, a favore delle donne afghane e le loro famiglie, reti di solidarietà tra associazioni e singoli, cittadine e cittadini, allo scopo di realizzare un sostegno più efficace, duraturo e coordinato. Anche tante altre donne, a partire da quelle torturate nei lager libici, aspettano il nostro aiuto.
Per queste ragioni condividiamo i motivi dell’appello [in fondo al post NDR], promosso da oltre 80 associazioni italiane e rivolto al Presidente del Consiglio, ai Ministri degli Esteri e dell’Interno del Governo italiano.
Invitiamo le cittadine e i cittadini della zona di Sassuolo, singolarmente od in gruppo, associazioni, circoli, sindacati, istituzioni a dar vita anche nella nostra zona ad una rete di solidarietà per coordinare aiuti e contributi, in termini di denaro, di realizzazione di iniziative pubbliche, di disponibilità ad accogliere eventualmente in futuro profughi. Tutto questo in diretto contatto con l’Associazione CISDA (Coordinamento italiano sostegno donne afghane onlus, con sede a Milano, via dei Transiti n.1, cap 20127, gli scopi e le attività della quale sono leggibili nel loro sito internet https://www.cisda.it)
Sin da ora sollecitiamo l’invio di contributi economici anche di modesta entità tramite bonifico bancario da accreditare all’IBAN della stessa Associazione: IT64U0501801600000000113666 sul conto corrente 113666 presso Banca Popolare Etica, agenzia via Scarlatti 31, Milano.
Le adesioni al presente appello vanno comunicate tramite mail all’indirizzo sassuolosolidaleprodonneafgane@gmail.com
Periodicamente gli/le aderenti verranno informati delle attività da svolgere o delle scelte da adottare assieme.”

Negli ultimi giorni si è parlato molto di Afghanistan. Per provare a capire qualcosa di più e farsi un’idea più approfondita della situazione afghana –  di quella delle donne e delle loro associazioni in particolare –  e delle sue cause, potrà essere utile la lettura dell’intervista a Gabriella Gagliardo realizzata da Mauro Sentimenti lo scorso 22 agosto.

Intervista a Gabriella Gagliardo, presidente di CISDA (Coordinamento italiano di sostegno alle donne Afghane)

Certo, come si dice, che la situazione afgana di oggi è il frutto di complesse vicende economiche geopolitiche e storiche che non è possibile richiamare in queste poche righe. L’essenziale tuttavia abbiamo il dovere di nominarlo: la presa del potere da parte dei taliban dopo 20 anni di occupazione degli Stati Uniti e 241 mila morti, segna per l’occidente una sconfitta politica e culturale di proporzioni enormi, della quale quella militare è solo la più appariscente. Esattamente quel che è avvenuto in Siria, Iraq e Libia. Qui come là il terrorismo jihadista non solo non è scomparso politicamente ma al contrario si è rafforzato ramificandosi in mille rivoli in vaste zone africane asiatiche e del Medio Oriente, lavorando sul piano ideologico per acquisire consenso e adesioni in ogni parte del mondo. Il movimento talebano (come quello di Isis), pur diviso al proprio interno per linee etniche, religiose e territoriali, ha potuto realizzare questo successo grazie agli aiuti finanziari e militari di Turchia, Arabia Saudita e Pakistan (per nominare i maggiori) paesi tutti a dittatura islamista con evidenti tratti di fascismo, coi quali intratteniamo da decenni rapporti di ogni genere. Si aggiunga che: a) oltre il 90% delle enormi risorse spese in Afghanistan dalla coalizione USA (2500 MILIARDI DI DOLLARI SOLO DAGLI STATI UNITI) sono servite a finanziare le spese militari, mentre per ONG infrastrutture educazione sanità giustizia anticorruzione, le briciole; b) la coalizione stessa ha così tradito, abbandonandole alle più crudeli ritorsioni, le donne afgane come quelle curde, libiche, irachene. La difesa dei diritti umani agitati come scopo della guerra.- l’altro era la sicurezza e la stabilità dell’area (!) di cui parla la Dott.ssa Gagliardo nell’intervista che segue – si mostra ancora una volta per quel che essa è: propaganda e cinismo. Impossibile non pensare a quello che sta accadendo ai migranti che tentano di attraversare il mediterraneo ed al trattamento che subiscono le donne ,e non solo, nei lager libici; c) non deve sorprendere il collasso lampo dell’esercito “regolare” afgano – 330 mila effettivi! – di fronte all’avanzata dei talebani (in 90 mila) che avrebbero potuto facilmente sconfiggere: rappresentava quell’esercito un governo e una realtà politica destituita di ogni credibilità agli occhi della maggioranza della popolazione causa l’appropriazione privata delle risorse e il totale disinteresse per una transizione democratica. In questo contesto le donne afgane pagano il prezzo più alto in assoluto essendo tante di loro diventate nei 20 anni trascorsi il simbolo di una alternativa globale alla visione talebana dei rapporti sociali e di genere. Queste donne e le loro organizzazioni (a cominciare da RAWA) rappresentano le realtà politiche sociali e culturali che cittadini e Governi dell’occidente, e non solo, dovrebbero sostenere in ogni possibile modo. A cominciare col subordinare ogni dialogo o aiuto economico ai talebani, come ai loro finanziatori!, al rispetto di un nucleo fondamentale di diritti.

Foto di Laura Quagliuolo del Cisda (2019)

Chiediamo a Gabriella Gagliardo, presidente di CISDA, la sua opinione su cause e conseguenze della sconfitta della coalizione USA e sulla realtà della lotta delle donne afghane.

Vale la pena approfondire chi sia stato sconfitto e in riferimento a quali obiettivi. L’obiettivo fallito da parte del blocco occidentale era quello di stabilizzare l’area. Il governo imposto a seguito dei bombardamenti del 2001, che hanno quasi eliminato un regime decisamente insopportabile per la maggior parte della popolazione, è però stato deciso con gli accordi di Bonn dalle potenze globali. Queste ultime hanno investito del potere interno uomini che avrebbero dovuto essere processati per reati contro l’umanità, assieme a figure rientrate nel paese dagli Usa, come Karzai, che apparteneva alla ristrettissima èlite delle famiglie dominanti. Una scelta necessaria per assicurare il controllo imperialista.

Foto di Laura Quagliuolo del Cisda (2019)

Foto di Laura Quagliuolo del Cisda (2019)

Cosa non ha funzionato? Sono stati aperti degli spazi di partecipazione, inizialmente simili a quelli delle cosiddette democrazie occidentali, primo tra tutti la convocazione di una Assemblea Costituente, la Loya Jirga, che ha comportato un processo elettorale che, pur viziato dai vecchi meccanismi tribali, ha aggirato in minima parte il controllo dei signori della guerra, facendo emergere leaders radicati in quei settori di società civile democratici attivi clandestinamente persino sotto il regime dei talebani.

Ed è così che Malalai Joya, la più giovane delegata, eletta dalla provincia remota di Farah, è riuscita di fronte alle telecamere accese in mondovisione a pronunciare il suo brevissimo sconvolgente discorso: un paio di minuti. Ha denunciato la natura criminale di chi presiedeva quella assemblea, rischiando la vita (è stata immediatamente messa in salvo dalle forze Onu) e provocando una situazione pre-insurrezionale non solo a Kabul ma in molte città, con manifestazioni di massa in suo sostegno e file alle emittenti radio di persone che volevano denunciare pubblicamente i crimini di cui erano vittime e testimoni. Gli afghani per un momento hanno creduto alla democrazia.

Quali spazi democratici sono compatibili con un contesto globale come questo, in cui siamo dentro noi e loro?

Le forze democratiche afghane hanno cercato di fare breccia e usare i pochi canali di partecipazione che si aprivano. L’unico partito non fondamentalista che è riuscito a registrarsi, facendo i salti mortali per rientrare nei parametri consentiti, è Hambastagi. E’ stato molto difficile, dal momento che la nuova Costituzione scritta col sostegno dell’Occidente prevede sacrosanti diritti (si pensi ad esempio all’articolo 22 che garantisce l’uguaglianza tra uomo e donna) ma subordina tutto l’impianto costituzionale nella sua applicazione alla conformità con non precisati “dettami dell’Islam”, come è ben chiarito nella premessa. Per cui ammettere un partito laico è stata una faccenda a dir poco controversa. Hambastagi è stato registrato, ha organizzato innumerevoli manifestazioni pubbliche di protesta facendosi autorizzare i cortei, ma da qui ad ottenere le condizioni di sicurezza per concorrere nelle elezioni, il passo era troppo lungo. La storia degli anni seguenti, anche solo guardando ai processi elettorali messi in moto con l’assistenza e il controllo occidentale, dimostra purtroppo che ben poco di democratico è stato considerato compatibile con il sistema. Dopo le elezioni del 2004, in cui Karzai vinse al primo turno con oltre il 55% dei voti e un’affluenza alle urne di quasi il 77% degli aventi diritto, le percentuali di votanti sono andate calando tragicamente elezione dopo elezione. Certo era stata eletta deputata di nuovo Malalai, come indipendente, malgrado minacce e attentati, a cui ha potuto sopravvivere grazie ad una rete capillare di sostenitori che testimonia come ci siano forze decise a giocare anche la carta elettorale, ben organizzate benché escluse dal grande gioco. Però Malalai sarà in seguito espulsa nuovamente dal Parlamento “democratico” e costretta alla clandestinità, in cui si trova anche oggi.

Ma soprattutto il livello di brogli, di corruzione, di violenza che ha impedito ad altri democratici di concorrere al processo elettorale, ha scoraggiato sempre più sia chi esponendosi avrebbe dovuto uscire allo scoperto senza alcuna garanzia di sicurezza, sia gli elettori che rischiavano molto anche solo per recarsi a votare.

L’affluenza era già calata nel 2005 alle elezioni provinciali, è crollata alle presidenziali del 2009 (affluenza al 31,4%), mentre le elezioni del 2013 sono state ripetutamente rimandate a causa del conflitto bellico e infine malgrado gli attentati nel 2014, in circostanze a dir poco dubbie. Del resto la commissione elettorale indipendente che avrebbe dovuto vigilare sulla regolarità era stata soppressa già dopo il caos del 2009, e andare a votare per molti non aveva senso. Soldi destinati agli aiuti sono stati spesi per incoraggiare donne a candidarsi, per poter mostrare sui media che le donne liberate c’erano e che potevano coprire le quote rosa previste, quel 25% di seggi che era stato addirittura superato alle elezioni parlamentari del 2005, con il 28% dei seggi assegnato a donne. Peccato che queste non fossero affatto rappresentanti di movimenti di donne esistenti, ma figlie e mogli di uomini esponenti dei soliti partiti fondamentalisti e delle élite dominanti, sganciate dalle dinamiche sociali. In Parlamento, tranne per pochissime eccezioni, il loro ruolo è stato nullo.

Il grottesco epilogo delle ultime elezioni, in cui tra le fondatissime accuse reciproche di brogli si contendevano la presidenza Ghani e Abdullah, ha visto eletti insieme i due principali concorrenti, pacificati con i ruoli rispettivamente di presidente e di vice per volontà degli Usa, che non sono riusciti altrimenti a far valere la loro esigenza di nominare una buona volta queste benedette cariche “democratiche”.

Foto di Laura Quagliuolo del Cisda (2019)

Foto di Laura Quagliuolo del Cisda (2019)

I governi “democratici” di questi 20 anni non sono però riusciti mai a centralizzare il controllo del paese, dovendo fare i conti con i poteri locali, sia dei talebani che hanno continuato a governare ed amministrare aree sempre più ampie di territorio, sia dei membri del loro stesso governo, quei loschi criminali che non si accontentavano delle cariche ufficiali ma che hanno continuato a spadroneggiare nelle proprie zone di influenza: intere provincie, ma anche zone della stessa capitale, divisa da linee invisibili attraverso cui passava il controllo di uno o dell’altro. Confini invisibili ufficialmente agli occhi delle potenze occupanti, ma nettissime, come abbiamo potuto verificare anche noi del Cisda ogni volta che le nostre delegazioni dovevano spostarsi da un quartiere all’altro per visitare progetti e attiviste. Attraversare le zone dell’uno o dell’altro, senza fermarsi, ha sempre comportato precauzioni, un protocollo di sicurezza che le nostre compagne non hanno mai trascurato di applicare. Non è fallito quindi alcun modello democratico che l’occidente avrebbe cercato di esportare, ma il meccanismo imperialista di dominio non ha funzionato nello stabilire un interlocutore locale stabile e minimamente affidabile per l’occidente, che di nuovo è ricorso, come aveva fatto nel 1996, ai talebani. Sperando che questa volta gli vada meglio. Perché, dicono, non c’è alternativa ai talebani.

In un simile scenario le forze con cui noi ci relazioniamo sono questa alternativa.

E le donne in particolare, non solo le attiviste d’avanguardia bollate come “radicali”, ma anche quelle che lottano per i diritti umani fondamentali in associazioni umanitarie, pare proprio che siano incompatibili con il sistema gradito alle potenze globali. Forse guardando alla loro estrema oppressione in Afghanistan e alla loro incrollabile resistenza, è possibile anche a noi intravedere un pilastro fondamentale del sistema in cui anche noi siamo immersi, aprire gli occhi sulle ragioni oscure del permanere del patriarcato anche nelle nostre società.

Cosa ci insegna l’esperienza “estrema” di oppressione delle donne in Afghanistan?

Ci è sembrato che le forze occupanti abbiano fatto degli sforzi notevoli per permettere l’emancipazione delle donne. Fiumi di aiuti umanitari, andati purtroppo a riempire le tasche di uomini politici e funzionari corrotti più che raggiungere le destinatarie ideali – ma questo andava messo in conto, dal momento che si erano privilegiati proprio gli interlocutori più corruttibili e disposti a svendere il proprio paese e tradire gli interessi della propria popolazione. Ma anche iniziative mirate a cooptare le giovani più promettenti, della ristretta élite ma con apertura a chi fosse talmente dotata da vincere, con grande fatica, concorsi e borse di studio per le università americane, e posti di lavoro nelle ONG che sorgevano come funghi.

La cooptazione è stata una strategia applicata in modo sistematico: alle ragazze è stata fatta balenare non solo una carriera prestigiosa, soldi, l’emancipazione giustamente ambita, ma la possibilità di fare qualcosa di utile per la propria gente, nobile e conforme alla propria morale. Tante sono state attratte e inghiottite in questo ambiente separato dalle masse, sempre più lontane dalla realtà quotidiana di estrema miseria, violenza e disperazione che è stata la vita quotidiana della quasi totalità delle donne afghane anche in questi 20 anni. Possiamo dire con molta emozione che le dirigenti delle poche ONG con cui noi abbiamo sempre collaborato, anche in questo frangente di estremo rischio stanno facendo di tutto per restare, passare in clandestinità, non abbandonare i progetti e trovare nuove vie per lottare.

Foto di Laura Quagliuolo del Cisda (2019)

La relativa sicurezza per cui erano tollerate sedi e attività rivolte alle donne dei settori sociali più poveri, in questo momento non c’è più. Già in questi 20 anni è stato difficile per le attiviste difendere certe attività umanitarie, solo apparentemente classificabili con l’etichetta “charity”, che miravano all’autodeterminazione delle donne a partire dalla risposta ai bisogni concreti e attraverso lo scontro, purtroppo inevitabile, nell’affermare dei diritti. Ad esempio lo scontro col sistema giudiziario nel caso dei centri di aiuto legale. Lo scontro con i Ministeri preposti al controllo degli shelter, le case-rifugio per donne vittime di violenza familiare e accusate del reato di abbandono del tetto coniugale e simili. Lo shelter di Hawca, che noi abbiamo finanziato, ha dovuto difendere con molta determinazione la propria autonomia dalle pretese di controllo da parte delle istituzioni. Quel minimo di agibilità politica tollerata è stato spinto fino all’estremo per far fronte ai continui ostacoli. L’esperienza in campo umanitario ha provocato nei fatti la formazione di attiviste sempre più politicizzate e consapevoli, e non solo di professioniste. Come le avvocate, anche le donne medico ed operatrici sanitarie, le insegnanti, le assistenti sociali che si formavano agendo nelle Ong che come Cisda siamo fiere di avere sempre sostenuto (Hawca, Opawc, Sajis, Afceco), sviluppavano competenze di cittadinanza, ben oltre gli obiettivi che una Ong normalmente si pone. Formavano leaders popolari, potenziali quadri politici, curando la crescita sia delle proprie operatrici che delle donne di base, perché diventassero non beneficiarie di un servizio ma protagoniste di percorsi collettivi. Non si sviluppano questi percorsi senza avere la formazione di questo tipo di quadri come principale obiettivo, senza dargli priorità rispetto ad altre esigenze di efficienza dell’organizzazione. E per farlo ci vuole metodo. Rawa in questo ha fatto scuola, il suo modello di azione umanitario-politica con le donne è ciò a cui molti afghani guardano, e a cui certamente noi del Cisda abbiamo sempre guardato, nella speranza di facilitare una conoscenza e uno scambio con loro anche qui, in Italia e in Europa, dove la difficoltà di realizzare un’autentica parità di genere resta enorme malgrado le apparenze di uguaglianza formale. L’autorganizzazione delle donne, a partire dall’alfabetizzazione e dai bisogni primari, ambulatori medici o attività per generare reddito, è la strategia principale di Rawa. Hanno un metodo lento, rispettoso ed efficace. Sono radicate, in città e nei villaggi, utilizzando le reti familiari, casa per casa.

Il caso di Rawa è emblematico: che mi risulti, è l’unica associazione femminista al mondo ad essere ormai da decenni il principale e più autorevole punto di riferimento di tutto ciò che si muove a sinistra in Afghanistan. I diversi partiti fondamentalisti lo sanno meglio di noi, per questo non abbiamo difficoltà ad affermarlo pubblicamente. E più volte, perché alle nostre amiche piace molto scherzare, loro stesse ci hanno raccontato di assurde accuse fatte da esponenti del governo in trasmissioni tv a persone completamente estranee alla loro organizzazione, di essere membri di Rawa – l’accusa più infamante che possano fare – per metterli a tacere.

E’ possibile in queste condizioni sconfiggere culturalmente e politicamente i talebani?

E’ dura lottare contro le strutture di ragionamento talebane. Il modo di ragionare fondamentalista fa parte della nostra cultura, diversi politici nostrani se ne servono, i media lo propagandano.

Abbiamo sentito in questi giorni giudizi francamente razzisti contro “gli afghani” che non lotterebbero per la propria liberazione, che hanno lasciato che i talebani riprendessero il potere senza combattere, che è stato un errore portare lì la democrazia (!) mentre l’Afghanistan ha una sua cultura “diversa”.

Sconfiggere culturalmente i talebani significa smettere di ragionare come loro.

Riconoscere invece l’esistenza di chi si oppone all’oppressione, dare a questi il diritto di esprimersi, di trattare, di svolgere il proprio ruolo alla pari, di autodeterminarsi.

Questo significherebbe sconfiggere i talebani, e gran parte del lavoro spetta a noi farlo, qui, cercando di contare qualcosa nelle scelte politiche delle nostre cosiddette democrazie, di imporre il rispetto dei diritti nel nostro territorio, cosa sempre meno scontata.

Ai talebani in Afghanistan ci penseranno gli Afghani: se le potenze globali, una buona volta, li lasciassero fare. Dati gli interessi in gioco, il compito che abbiamo qui noi non meno difficile del loro.

Per contribuire a sostenere le donne afgane accedere al sito htpp://www.cisda.it

>> Scarica l’appello promosso da oltre 80 associazioni italiane e rivolto al Presidente del Consiglio, ai Ministri degli Esteri e dell’Interno del Governo italiano

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